L’appartamentino nuovo è pronto e pulito, la casa pulita, il pollaio pure con dentro due scomodi letti.

Stanno per venire a insediare il don Antonio nella sua Parrocchia, l’indomani mattina nella chiesa di Cairoma.

Sono le 15, aspettiamo la truppa per le 16 circa. In forno c’è una torta (ricetta della Maria) fatta con l’aranciata e con mele locali, o quello che di esse s’è riusciti a salvare, pronto nel suo stampo c’è un plumcake allo yogurt con gocce di cioccolato, noci e mandorle, dopodiché in coda ci sono le lasagne da cuocere, così poi basta una scaldatina e ci siamo. Intanto preparo due stuzzichini per l’accoglienza, due olive locali con peperoncino già incluso al posto del nocciolo, due patatine, due salatini, un aperitivo poco alcoolico, due tartine con formaggio fresco. Nel frattempo arriva una chiamata: disguidi vari hanno fatto in modo che il Vescovo non possa salire, verrà il vicario generale con una decina di preti e un tizio che s’aggrega. Arriveranno per le 20. Quindi finisco le cotture varie e rimando la preparazione degli aperitivi, anzi, quasi quasi saltano, tanto arriveranno che sarà ora di cena… mah, vediamo. La mamma di Janette arriva con la figlia in casa parrocchiale: “E adesso che faccio con le pizze?”. La pasta per tre teglie è già lievitata e tutti gli ingredienti necessari son pronti, l’avevamo sguinzagliata per aiutarci a sfamare la tribù clericale, beh, che efficienza! Ma ora è un po’ in crisi perché non sa a che ora stendere-farcire-cuocere. La tranquillizziamo dicendo che l’avviseremo non appena sapremo qualcosa di più preciso. Nel frattempo ammazziamo il tempo preparando un po’ di documenti che ci serviranno sia per il ritiro dei ragazzi (8-9 Giugno), sia per il prolungamento del mio visto.

Tutto è pronto, sono le 20 in punto, arrivano i nostri ospiti. La fame è tanta che negli occhi al posto delle pupille hanno un panino, alla Poldo. Ci dividiamo, “los de las lasagnas se quedan aqui, los de la pizza vengan conmigo“. Beh, chi parla è il don Antonio (beh chiaro, con il congiuntivo…). Peccato, avrei rinunciato volentieri alle mie lasagne (materia prima 99% boliviana, 1% italiana, ma che profumavano di meraviglia…) pur di tuffarmi in una qualsiasi pizza 100% boliviana. Mannaggia a l’òstrega. Va bè, dai, pazienza, ci sarà un’altra occasione per farmi invitare, tanto sto per iniziare a insegnare a Janette a suonicchiare la chitarra, mi farò pagare a pizze (stavo per scrivere “in natura”).

Los de la pizza se ne vanno, los de las lasagnas si accomodano e fanno bis e tris e si mettono a parlare del più e del meno, di prelatura e incardinazioni, delle loro parrocchie, di preti italiani che hanno conosciuto, di imprese minerarie o cooperative; raccontano episodi tra più disparati, tra il tragico e il comico senza soluzione di continuità. In particolare c’è padre Henry che è ispiratissimo, non si ferma un attimo: i suoi aneddoti spaziano dal suo parrocchiano minatore cooperativista che ha fatto fortuna in un giorno e s’è schiantato il giorno dopo ubriaco con l’auto (mi viene in mente: “isn’t it ironic? Don’t you think?” Alanis Morrisette), alla sera in cui padre Ferrari l’ha portato a mangiare a pizza in quel locale e raccontava di quando era seminarista…

Mi chiedono com’è l’Italia, da dove vengo di preciso, che ci faccio in quel posto dimenticato da dio, se sono sposato. “No te gusta aqui? – mi dicono – beh, scusa, potresti diventare sacerdote e venire qui con noi a darci una mano”. Isn’t it ironic? Avrò avuto una tonaca al posto delle pupille? Rispondo che “ho già dato” senza successo e che, va bene che “non riprovarci è un peccato”, però neanche stare a sbattere la testa contro il muro… “Allora trovati una ragazza, no?”. “Già dato pure questo; 8 anni con la ragazza più carina e a modo del mondo, ché lo zio Gigi – saputo della separazione – quasi mi si mette a piangere dicendo “Cavolo che botta, come perdere un familiare”. A questo punto non sanno più neanche loro che pesci pigliare. Mi rincuora il fatto di non essere il solo, anche se la pelle non è certo la loro.

Tornano los de la pizza, tutti belli allegri (ma che polverina ci ha messo la signora al posto del lievito?), riunione dietro ad un tè caldo per condividere il programma dell’indomani e tutti a letto.

Prima delle 7 in casa c’è già trambusto, gente che va e viene dal bagno, che si prepara la colazione in autonomia. Mi viene un colpo quando capisco che là ci sono le mie torte e che se non mi sbrigo rischio di non assaggiarle. Mi alzo, mi vesto e mi fiondo in cucina, c’è una sconosciuta signora (in casa mia) che mi offre una bevanda calda che sa di vin brulè (notevole) e sul tavolo della sala da pranzo è rimasta una ed una sola fetta della torta all’aranciata locale con mele. Tu Tu Tu Tu cha cha cha cha… è la musica di “Momenti di gloria”, la scena al rallenty della rincorsa verso la meta della vittoria allo scadere del tempo. Tra me e lei ci stanno quattro o cinque metri mentre vedo una mano, sempre al rallenty, che si avvicina minacciosamente alla pirofila brandendo un coltello. Con una smorfia di sforzo-dolore pitturata sul viso mi protendo, il coltello taglia a metà la fetta e in un millisecondo la sotto-fetta rimanente è già tra le mie dita, la sento morbida, spugnosa, bagnaticcia, mmm, la porto alla bocca e raggiungo la pace dei sensi. Un po’ bruciacchiata sotto, ma assolutametnte da riproporre (grande Maria, ottima ricetta).

Si parte, in mezz’ora siamo là. Cairoma è in subbuglio, stanno allestendo per la festa. Mi faccio un giro scattando foto e mi siedo sui gradini della piazzetta facendomi inondare dal sole per scaldarmi. Si avvicina un signore che mi racconta di cosa avevano stavano combinando lui e don Antonio in occasione del golpe del 1980, quando arrivò la Polizia per arrestarli e condurli in gattabuia a La Paz. Poco dopo un altro “Buenos dias joven“, prende a chiedermi della festa in corso, dove è il padre Antonio, come sarà la cerimonia. “Non lo so, caballero, desculpe“.

Inizia la festa, processione a base di birra scura offerta ai sacerdoti celebranti che vengono pure coperti di petali vari sulla testa e di ampie collane di verdura al collo che contrasta sopra i loro paramenti bianchi. Una, due, tre, quattro, cinque stazioni e arrivo alla chiesa, per ogni stazione un bicchiere di birra, così celebrano la messa più contenti. Fuori dalla chiesa i discorsi delle autorità. Il più commuovente è quello dell’Alcalde (il sindaco) di Cairoma, rivolto al vicario generale (il vice-Vescovo), suona più o meno così: siamo contenti che don Antonio sia tornato a fare il parroco qui da noi perché tutti noi e i nostri figli siamo cresciuti con lui, è lui che ci ha insegnato i valori della vita, con l’esempio prima ancora che con le parole, combattendo assieme a noi per i nostri diritti. Riferiscilo al Vescovo, che è lui il nostro don e che se nell’Alcaldìa ci sono il 90% di cattolici è per merito suo.

Altro che alleanza trono-altare. Qui si potrebbe quasi scatenare un’altra lotta per le investiture, poche balle, se non fosse che al vescovo Torribio Porco Ticona, dall’alto dei suoi 74 anni e del suo Parkinson, probabilmente non gliene può fregare di meno.

La messa ha inizio con la sua bella cerimonia di insediamento, l’ostensione della carta firmata dal Vescovo che sancisce il “possesso” della Parrocchia da parte di don Antonio, la consegna simbolica delle chiavi, del pane e del vino della messa, l’abbraccio con il vicario. C’è gente venuta dalle vicinanze e c’è gente anche di Viloco, soprattutto donne e bimbi, dopotutto è Lunedì e il Lunedì di solito si lavora anche qui. Al termine della messa gli abbracci della gente, soprattutto, appunto, quella di Viloco al don.

Segue pranzo nella sede del sindacato. Una trentina di astanti (delle più di 200 persone che ad occhio hanno partecipato), i preti, le autorità, il dottore e pochi altri. Il classico pranzo “da campo”, dove le donne cucinano quello che hanno a casa e portano il tutto nei loro coloratissimi tessuti, appoggiano per terra, si accovacciano, servono con le mani nei piatti (wow, ci sono i piatti, che lusso), e portano ai commensali i quali mangiano evidentemente con le mani, tranne le autorità che hanno le posate… doppio lusso. Ormai ci sono abituato a queste scene di pranzo collettivo da campo. Sono appena stato male probabilmente per uno di questi pranzi e allora vado nel corridoio dove stanno servendo e faccio io l’ordine, cercando di scegliere le cose apparentemente più pulite. L’impresa riesce parzialmente, ma almeno riesco a farmi mettere nel piatto la metà di quello che hanno gli altri (dimezzo la carica batterica, che è già qualcosa). A pranzo mi siedo sulla panca vicino a Franz, collaboratore del don e assiduo bevitore di caffè della casa parrocchiale la domenica mattina; sta lì con moglie e il bimbo più piccolo di un anno e 4 mesi che inizialmente non mi fila, ma pian piano inizia a rispondere alle mie smorfie.

Il pranzo è veloce, fuori c’è tutta la gente che a sua volta rumina aspettando solo di iniziare a far suonare la banda e ballare, ma noi ce ne dobbiamo andare a Saya, ultima comunità della parrocchia in direzione nord-est, perché c’è una questione da dirimere. Non l’avessi mai fatto. Il viaggio di due ore è un inferno si sobbalzi con lo stomaco appena riempito, al limite della nausea. Non so quale questione ci fosse, ma c’era da andare e basta, era venuto apposta l’amministratore locale per mostrare tutto quanto al vicario. Insomma arriviamo. È l’una e mezza. Il minatore scende dalla jeep e va dalla sua famiglia, il don va a dormire non so dove dicendo agli altri che ha una cosa da fare, il vicario si mette a chiacchierare con l’amministratore della questione irrisolta (che rimarrà tale). Scendo anch’io, sono sfinito. L’aria è tiepida, mi metto in camicia, la vegetazione è rigogliosa, fiori bellissimi, animali che pascolano, la vita lentissima del pueblito nella canicola, una grande chiesa coloniale, stupenda se non fosse per quell’altare così barocco. Davanti e vicino a noi si staglia l’Illimani, LA montagna. Lo vediamo da una prospettiva nuova, praticamente dal versante opposto a quello che si ammira da La Paz. Sembra molto meno imponente che da là; con i suoi 6402 metri e i suoi quattro picchi sempre ben distinguibili, è la terza della Bolivia per altitudine, ma forse la più ostica da affrontare.

Beh, faccio due passi cercando di individuare un posto un po’ riparato e morbido, mi sdraio dietro ad un cespuglio e schiaccio un pisolo. Accanto a me c’è una casa dove una graziosa fanciulla porta al pascolo il porcello di famiglia, sistema le galline, ritira i panni stesi e in tutto ciò ogni tanto mi rifila un’occhiataccia, chiedendosi chi diavolo sono e che diavolo mai ci faccio lì. Dopo un’oretta mi alzo e faccio altri due passi. È ora di ripartire. Oh mio dio, no. Altre due ore di sofferenza, ma almeno riesco ad ottenere di salire davanti, schiacciando le gambe del vicario generale contro il cambio 😉

Il nostro minatore risale sulla jeep tutto bello pulito e pettinato (effetto-moglie), mentre l’amministratore si ferma nel suo villaggio. Arriviamo a Viloco alle 17.30. Io ho un mal di testa ad impulsi che mi spacca, il don ha una fame che lo divora, padre Hector, il vicario, non fa una piega. Si mette su una pasta, il ragù avanzato dall’assemblaggio delle lasagne è un ottimo accompagnatore, si cena. Sono le 6. Radio Panamericana de Bolivia ci fa compagnia mentre la pasta e quel che resta dell’altra torta evapora in fretta. Mi do una sciacquata mentre i due preti se la raccontano commentando le notizie della tv. Saluto e vado a letto, non sono ancora le 20. Devo riaccompagnare padre Hector a Patacamaya la mattina seguente e andare a La Paz.

Viaggiare alla guida della jeep stanca venti volte meno che stare al lato passeggero. Le due ore di sterrato manco le vedo, mentre nel bel mezzo carichiamo una mammina neanche ventenne che, col suo marmocchietto, ci chiede un passaggio diretta a La Paz. La strada scorre, veloce, anche dopo qualche sorpasso un po’ azzardato e a mezzogiorno in punto siamo a Patacamaya. Padre Hector scende, per ringraziarmi mi invita a pranzo. Chiamo Nelson che mi attende ad El Alto (e meno male così guida lui in quell’inferno di traffico), gli dico che sarò là alle 14. Beh, ma la signora con bimbo? Ah, beh, certo, dentro anche lei a pranzo! Siamo nel complesso che ospita gli uffici della segreteria della Prelatura, nonché l’abitazione del vescovo e del vicario. Il bimbo dorme, a signora lo pianta in macchina e viene a mangiare, incredula di stare lì in una casa così signorile (e probabilmente di mangiare con le posate). Di tanto in tanto a turno ci si alza e si va a vedere se il bimbo si è svegliato. Sì, puntualmente nel bel mezzo del pranzo. Stiamo mangiando una zuppa di manì (l’arachide non tostata) con verdurine, una braciolina di manzo con immancabili riso e patate.

Alle 13 è ora di ripartire. Salutiamo e ci rimettiamo in auto con la giovane mamma dietro che mi dice se è il caso di sorpassare o meno, un mito. Mi fa un po’ di domande per capire chi sono, che ci faccio, che vado a fare a La Paz, quando torno. Io faccio altrettanto. Per loro continuare a far domande -che a noi sembrano un’invadenza – è una forma di cortesia e di attenzione nei confronti degli altri. Quando passi per strada ti salutano tutti e ti chiedono come stai e dove vai, mentre già volgono lo sguardo e continuano a camminare. Se gli rispondi sono già a dieci metri di distanza. Siamo o non siamo in America?

La mini-mamma va a La Paz a portare i prodotti della sua terra da vendere in città, li porta a certi suoi parenti che la ospitano. Tornerà Sabato a Mallachuma, il suo ridente villaggetto sito sotto le vette innevate della cordigliera e ai margini di un bellissimo lago. Arriviamo velocemente a El Alto, Nelson sale e mi chiede del viaggio, ci tuffiamo nel traffico verso l’autopista. In mezz’ora siamo a La Paz, ma cavolo, abbiamo fatto cinque chilometri a far tanto. Ops, ho guidato io? Il mio battesimo.

La Paz, un nome un’essenza. Che bello arrivare qui e farsi la solita doccia, caricare la solita lavatrice, rispondere alle mail, ecc. ecc. È mercoledì pomeriggio.

Giovedì e venerdì shopping nelle solite stradine incasinate di gente, pomeriggio a scrivere, a sistemare le robe da fotocopiare, ecc. Con Tico, Renè e l’immancabile Julieta andiamo a comprare una chitarra per Janette, in questa strada ci sono bellissimi maglioni di alpaca e altre cose stupende… (sarà per la prossima volta, va’). Individuiamo la chitarra, ecc., a me solo il compito di prendere in mano la chitarra e provarla. La mattina scorre tanto allegra che la prossima volta me li porto ancora a fare shopping.

È ora di pranzo. Devo fare in fretta perché oggi pome ho la spesa alimentare da fare (zona sud della città) e il biglietto del pulman da andare a comprare a El Alto (parte opposta) per domattina. Spero di fare in fretta, ché magari riesco anche a beccare qualcuno in skype e a finire quello che vorrei scrivere. Chiamo un taxi, gli spiego nel dettaglio tutto quello che devo fare e gli chiedo se mi può aspettare mentre faccio la spesa al supermercato. Questo ragazzo guida malissimo, tutto a zigzag. Porco cane. Però questo m’è capitato e me lo devo tenere. Mi ascolta, prende la radio e contatta la sua centrale per farsi dare una stima del prezzo per farsi tutta sta sfacchinata con me. La strada è lunga, mi aspetterà mezz’oretta fuori dal supermercato, con la spesa in auto risaliremo tutta la città e andremo a pigliare il biglietto del pullman e torneremo alla parrocchia. Ok, 100 boliviani per il tutto. Arriviamo esausti alla parrocchia alle 17.30, mentre gli chiedo se domani alle 6.30 mi può riaccompagnare ad El alto. Affare fatto.

Sono quasi le 21, aspetto che i padri finiscano i loro giri per cenare assieme. Poi mi toccherà sistemare al meglio lo zaino e tutto ciò che devo trasportare a Viloco. Arrivo previsto per le 14.30. Praticamente una sfacchinata. Ma mi passerà: ho i miei hermanos Karamazov da leggere e le coniugazioni dei verbi da studiare, casomai anche la chitarra da suonicchiare (il cappello per raccogliere gli eventuali oboli), se ho fame ho lì la spesa, BOONAAA.

Un po’ di “someanze” della festa