Huayna PotosìNei giorni precedenti alla spedizione scopro che il nome di questa splendida montagna si scrive Huayna Potosì e non Wayna come fosse John.

Partenza al cardiopalma: siamo d’accordo con il tipo dell’agenzia turistica che ci verrà a prendere in mattinata per andare a vedere l’equipaggiamento che ci manca e poi partenza nel pomeriggio ci aveva detto. Invece partenza la mattina e lui non può venire: infiliamo due cose nello zaino, chiamo un taxi e via. Abbiamo preso tutto? Pazienza, ormai siamo qui. I tre dell’ave Maria: il sottoscritto, GianPaolo, volontario bergamasco del Celim ai suoi ultimi giorni di permanenza in Bolivia e la sua bolivianissima ragazza, Erika, che nei giorni precedenti se l’è trascinato in lungo e in largo in un allenamento di 20 Km al giorno.

Controllo attrezzatura tecnica: sacco a pelo, scarponi, ramponi, picozza, pantaloni impermeabili, ghette, doppi guanti, passamontagna, pila e poi le proprie cose di rito. La guida si chiama Lucio, è un ragazzo più o meno della nostra età che ne dimostra un po’ di più a vederlo, va a prenderci qua e là qualcosa per il pranzo mentre siamo avviati in un minibus ad un rifugino a quota 4800. L’impresa titanica del giorno è arrivare a 5100, con nonchalance, pensiamo. La tavola è imbandita: qualche pane fresco fresco, una coca cola, un avocado, prosciutto, pomodori, cetrioli, banane. Ci incamminiamo subito dopo. “Volete che un ragazzo vi porti l’attrezzatura?” ci aveva chiesto Lucio. “Ma nooo”, avevamo risposto. Ma a 5000 metri con 15 chili sulle spalle e tre panini sullo stomaco, non è proprio una passeggiata. Gli sherpa, se esistono, serviranno pure a qualcosa… ma noi orgogliosi bergamaschi… Ad ogni modo in un paio d’ore raggiungiamo il rifugio alto e prendiamo posto al piano superiore per passare la notte. Notte…

Alle 2 del mattino dovremmo partire per attaccare la vetta, quindi a letto presto e via. Ci rilassiamo un po’, poi Lucio e Rodrigo (e questo da dove spunta?) ci insegnano a infilare i ramponi e a usare la picozza. Facciamo un centinaio di metri di dislivello provando come fossero passi di danza le due mosse da fare. Cena frugale in uno stanzino pieno di gente e di zaini mezzi aperti. C’è una nutrita squadra di olandesi, di cui uno ha preso in prestito l’aspetto dal cantante dei Coldplay, ci sono degli israeliani, dei britannici, alcuni germani, due franchi (forse uno si chiama Vercingetorige, la faccia ce l’ha) e degli unni con le corna, poi da ultimi due italiani scoppiati ;-), due argentini, di cui uno del River Plate (che non posso neanche sfottere un po’, dato che, benché mi nasconda dietro all’Albinoleffe e al calcio malato, in realtà sono juventino da sempre), uno sherpa nepalese e dei boliviani che per lo più ci lavorano, guide andine, un cuoco e un altro paio di ragazzi.

Cena e a letto. Come in gran parte delle abitazioni boliviane anche qui il bagno è fuori, quindi potete solo immaginare il silenzio e il raccoglimento di uno stanzone al piano rialzato dal pavimento di legno con dentro 30 persone che dormono per terra ammucchiate l’una all’altra, ciascuna nel suo sacco a pelo che appena ti giri fruscia… Risultato: pile che si accendono e si spengono, gente che va e che viene scavalcandoti, insomma serata e quel poco di notte completamente insonne per tutti e tre, scandita ogni tanto da qualche battuta a volte spiritosa a volte nervosa e con le mie soffiate di naso utili solo per i successivi 2 minuti. Con il freddo pinguino di questi mesi è il mio primo raffreddore serio – proprio ora -, perché in Italia ne ho uno ogni 2 settimane? L’umidità? O gli sbalzi di temperatura tra il dentro e il fuori?

Verso l’una suona la sveglia di un cellulare, sarebbe ora di iniziare a tirarsi assieme, ma nessuno di noi accenna a movimenti. È solo quando arriva la guida a chiamarci che decidiamo di prepararci. Ho un sonno allucinante, condito da un bel mal di testa che quasi mi viene da vomitare. Non ho voglia di rischiare e di star male, facendo rallentare anche gli altri in cordata, così decido che il mio Huayna Potosì in vetta sarà al tentativo numero 2, nonostante i caldi inviti dei miei compagni e della guida. Saluto, mi giro dall’altra parte e finalmente riesco a dormire un paio d’ore, fregando prima un materasso di qua e un cuscino di là. Fuori fischia un vento pazzesco, mi chiedo come faranno gli altri due a stare in piedi… ma sono tenaci e Lucio è davvero bravo.

Li attendo fuori dal rifugio in una giornata un po’ incerta, col sole che va e viene e con uno dei due ragazzi israeliani, tornato anzitempo causa malesseri di altitudine, attacca bottone facendomi rispolverare un arrugginito inglese (mi prende in giro perché quando reagisco lo faccio in castigliano e poi mi correggo…):
– “Perché non vieni a fare un giro in Israele, è il paese più sicuro al mondo” –  indicativo che sia questo il primo aggettivo che usa per il suo paese – io abito a Be’er Sheva, al sud e adesso la situazione è buona.
– “Certo che Israele è il paese più odiato del mondo”.
– “Guarda, l’altro giorno all’ostello m’è venuto da ridere, alla reception il tizio quando ha visto i passaporti ci ha detto che ci avrebbe messo in stanza con due svizzeri. Un paese guerrafondaio con un paese pacifista…”.

Verso le 10 i ragazzi sono di ritorno da quella splendida distesa bianca: Erika è un fiorellino, è diventata il mito delle guide per la facilità con la quale se ne va e se ne viene su ogni tipo di terreno, Gian è praticamente più di là che di qua… e racconta di una fatica immane sua e di tutti gli altri delle altre cordate, della nausea, ma della soddisfazione di essere arrivato.

Quanto a me, un po’ pentito, un po’ contento per non aver rischiato, anche a fronte della seconda possibilità che avrò ad Ottobre con i nipoti del don.

Mettiamo qualcosina sotto i denti sfidando le rispettive nausee e ce ne scendiamo al rifugio basso mentre sta iniziando a nevicare. Mi sa che la discesa in bicicletta dalla strada più pericolosa del mondo sarà rimandata a data da destinarsi.