Son giorni che dico tra me e me… se e quando arrivo in cima mi butto in ginocchio e urlo “Adrianaaaa”, poi mi strappo le vesti e mi faccio fare una foto con la maglietta gialla che ho messo per portare simbolicamente a quota 6088 anche la mia Campagnola e i miei amici di WeekendRock. Ma ero talmente rincoglionito, dopo aver fatto gli ultimi 150 metri di dislivello in quasi-apnea, con i denti e con le unghie (rosicchiate) più che con i ramponi e la picozza che avevo solo il problema di respirare e poi tirava un’aria che strapparsi le vesti voleva dire ritrovarsi come Jack Nicholson in una delle ultime scene di Shining. Quindi niente, va bè.

Non so cosa mi ha tirato in cima, le avemarie o le bestemmie, lo spettacolo dell’ultima cresta a 45 gradi con strapiombo a destra e strapiombo a sinistra, l’idea di arrivare in cima e lasciarsi travolgere dal sorgere del sole… non so.

Beh, insomma, è fatta.

Pre-partenza con un po’ di fifa, mollata tutta nella jeep alla partenza, la prima salita di ieri mi aveva lasciato la sensazione di star proprio bene (fare in 75 minuti la stessa salita che l’altra volta abbiamo fatto in 2 ore e mezza… la dice tutta). Siamo riusciti a pigliare una parte del rifugio con i letti e con la quasi certezza di dormire. Né Piero, né Giovanna stanno benissimo, io invece mi sento un leone, nonostante la pizza della sera prima avesse creato qualche problemino intestinale a tutti e tre. Ceniamo e a letto. Beh, è stata durissima, ma almeno un’oretta credo di averla dormita, quantomeno non ho mangiato tutto quel nervoso dell’altra volta. Loro invece sembrano belli riposati.

Dopo le 2, partenza: cielo stellato con un’Orione a testa in giù ad accompagnarci con un quarto di luna a tentare di illuminare il cammino che si snoda attraverso pendenze variabili, crepacci, passaggi vertiginosi e lunghi tratti regolari che fanno sì che l’andatura sia piuttosto sostenuta. La quota sale, il fiato ne risente, la nutella della colazione si ribella nello stomaco, lo scarpone inizia a pressare sullo stinco, ma si sale con abbastanza scioltezza. Ad un certo punto la maledizione dello Huayna miete la sua vittima sacrificale (che al ritorno si stupisce di quante altre vittime le facciano compagnia, anzi, nemmeno siano partite). Non sta bene, ma stringe i denti e prosegue, una, due, tre, quattro, cinque volte, finché a quota 5700 l’ossigeno è troppo poco per poter rischiare di andare a star male davvero. E saggiamente, meditando le parole della tradizione degli scalatori citate anche qui dal buon Fausto “L’importante non è arrivare in cima ma arrivare a casa”, decide di abbandonare la corsa. L’altitudine gioca questi ed altri scherzi…

Noi si prosegue, io che inizio ad arrancare, Piero dietro di me che è un treno. Con le nostre pile frontali illuminiamo un tratto in decisa salita, siamo quasi arrivati. Sopra le nostre teste, leggermente a sinistra e ad una distanza piuttosto considerevole si vedono le luci di altre pilette che ondeggiano, beh, se a qualcuno di quei francesi lassù cade in fallo una picozza c’è la possibilità che vedano un altro film horror al ritorno… Velocemente si fa giorno, l’orizzonte si illumina e si colora. La vetta è affollata, che su quel crestino largo 40 centimetri può anche essere un problema gente che sale, gente che scende, due foto e via giù a salti, finché si può. Adesso c’è da arrivare al campo base con un po’ di lucidità in più, poi vedremo di tirare il fiato e farci gli ultimi metri trascinandoci verso la jeep e arrivare a casa (letto, letto!).

Beh, dopo un pranzo trovato pronto, una doccia e una dormita, il mondo è diverso, ma quello che c’è lassù è da cornice.

😉