Mi ha fatto strano stamattina essere in aeroporto a Cochabamba ad attendere la partenza dell’aereo che riportava in Italia buona parte dei nostri visitatori tribulinesi. 8 su 10 son decollati con la classica bella ora di ritardo Aerosur (Lucia ne sa già qualcosa), rimangono scampoli di persone a Viloco a fare compagnia al don per scampoli di giorni in attesa di rimpatriare fra una settimana esatta.
Venti giorni assieme su e giù per la Bolivia a vedere posti, a ridere, a giocare a carte, al caldo umido di S. José de Chiquitos, al freddo di Viloco fattosi umido giusto per l’occasione, dai 5000 metri ad accendere il sigarillo per gli spiriti, ai 300 metri a bestemmiare contro quelli che bloqueavano la strada per le missioni gesuitiche 😉 un vero peccato… Venti giorni volati. Cochabamba, La Paz, Santa Cruz, Viloco e poi di nuovo Cochabamba. Aerei, treni, pullman, minibus, micro, trufi, taxi, jeep sull’asfalto e sullo sterrato con la polvere all’andata, con la neve al ritorno, il pedalò sul lago Titicaca, fino alla teleferica a carrucola sul fiume ieri in Chapare per vedere il parco naturale del Carrasco, farsi un bagno nel fiume e fare in tempo a prendersi una tempesta tropicale (peccato non aver visto le galline in volo trascinate da quel vento impetuoso, sarebbe stato divertente).
Stamattina alle 6, le chiavi della macchina appoggiate chissà dove, ah, eccole (che ci fanno qui? le avrò lasciate in giro e qualcuno le avrà spostate?), di corsa alla ciudad del niño a pigliare i passeggeri, di corsa in aeroporto. Le solite operazioni per agevolare il check-in e l’imbarco, mi fa senso che sia la prima volta con loro senza il mio zaino sulle spalle, i saluti di rito, gli abbracci, le carezze e i sinceri ringraziamenti reciproci prima del metal detector. Salgo sul mirador per vederli salire sull’aereo e sperare che tutto fili liscio senza ulteriori ritardi e così è. Passano ol Pasqualì e la Maria, i nostri mayores tutti desiderosi di dare una mano al don e commossi al salutarlo, Franco, spiritoso e riflessivo (che uno si chiede come mai alla sua veneranda età nessuna se l’è ancora pigliato), la sanguigna Sandra, il mistico Enrico, lo spumeggiante Carlo che prima di salire sulla scala non manca di far prendere l’ennesimo spavento all’intelligente Maicol e la dulcis Chiara, in fundo (carramba che sorpresa, è la nipote dell’Ilaria del Malawi e – perdincibacco – neanche le foto delle scimmiette che abitano con sua zia le ho fatto vedere, va be’.).
Viste dall’alto le operazioni di imbarco passeggeri, bagagli, rifornimento carburante, i controlli rituali, appaiono come una lenta danza con dei figuranti monocromi, dall’unico vivace colore arancione. Al mirador c’è un sacco di gente appiccicata alla rete metallica che non toglie gli occhi dall’aereo, chiacchiera, saluta, ride, piange, dà suggerimenti ai bambini (“quando lo/a vedi, saluta forte”). Chissà chi sta partendo per loro. Chissà dove va, qualcuno – sento – va in Brasile, altri da lì partiranno per l’Europa, magari in un viaggio della speranza o per tornare al proprio lavoro di badante, infermiera, o per ricongiungersi con la propria famiglia: Italia, Spagna, Olanda. Magari con la paura di non rivedersi. Accanto a me c’è, lì con la moglie, un signore dai baffetti bianchi e dal cappello verdone-western che poco prima avevamo visto attardarsi al banco del check-in con una giovane donna. Chissà se è la figlia. Ora la saluta con ampi gesti e non appena lei scompare inghiottita dalla porta dell’aereo scoppia in un pianto incessante.
L’aereo decolla, sale, sale, sale. Curva poco prima delle montagne, anche i piloti hanno il loro sacrosanto diritto al divertimento, giustamente.
Torno all’auto cercando di ricostruire mentalmente la strada per la Parrocchia che mi ospita (o per il supermercato perché ho anche la spesa da fare). Entro baldanzoso e giro la chiave: flop. Ho dimenticato i fari accesi per 2 ore e mezza e la batteria è un po’ giù di morale. Va bè, poco male. Cerco un tassista che abbia i cavi, sulla prima non lo trovo, parte la chiamata a don Sergio perché possa attivare i soccorsi, sempre di corsa, ma sempre disponibile (“che bello!”), ma subito dopo mi imbatto in un drappello di tassisti disoccupati: quattro giocano a carte, un’altra decina lì in piedi a guardare. Tra essi uno che alla mia domanda alza la mano come a scuola, si allontana dal gruppo, prende il suo mezzo e mi risolve il problema. “Posso lasciarle qualcosa?” Mi fa una faccia come per dirmi “va beh, se proprio vuoi…”. Tolgo 10 boliviani e glieli do. “Veinte pesitos, por favor, che ho dovuto spostarmi con l’auto” (70-80 metri per la cronaca).
Va bè, ci sta, dopo tutto mi ha tolto dai guai. Guai seri 🙂
ciao Diegoooo sono Sandra, sono qui con Carlo
abbiamo finalmente trovato il tuo blog…che bei ricordi!!!!
è stato davvero un bellissimo viaggio che porteremo sempre con noi…
Salutaci il don…
un forte abbraccio
Ehiiii, ciao, tribulini. Commentando quel giorno in cui vi guardavo salire e partire in aereo avrei rubato la battuta ad un mio amico per salutarvi: “Sceeecc… la compagnia l’è bèla, ma adès bona, fo’ di bale ché mi stöfat!”. Mi son trattenuto perché qualcuno l’avrebbe presa sul serio. Giorni splendidi trascorsi con voi, come quelli che sto finendo di trascorrere con Giovanna e Piero. Spero che anche per tutti gli ospiti sia stata una vacanza bella e costruttiva allo stesso tempo.
Il don ve lo saluto appena lo vedo.
Un abbraccio anche a voi.