Ed eccoci qua.

Preparativi sconclusionati, con la testa tra le nuvole (e che novità), le cose da fare lasciate indietro, saluti affrettati, altri raddoppiati, altri mancati. La sera di martedì 19 a casa di Luca (come nel famoso motivetto) a tirar tardi per svegliarsi a distanza di 4 ore e partire.

Boltiere, Linate, Fiumicino, Caracas, Lima, La Paz. Una Zafira, tre Airbus 320 e un signor Boeing 777 Alitalia con su anche una Maria Teresa Ruta che non t’aspetti, dal mondo patinato della TV alla classe Economy coi comuni mortali). Per un totale di 27 ore e mezza all inclusive. Così almeno pensavo.

La Paz, ore 00.35, l’aereo appoggia e frena così delicato che sembra quel treno per Yuma, controllo passaporti (“usted puede permanecer aqui solo por noventa dìas“), ritiro bagagli (cacchio, stavolta ci sono), uscita, cerco facce conosciute o anche vagamente occidentali mentre attraverso due ali di folla variegata. Mmm, nessuno. Torno indietro e faccio di nuovo la scansione delle facce tenendo conto anche dei vagamente boliviani con dei cartelli in mano… mmm, nessuno. Aspetto un attimo, provo ad uscire, ad andare nell’area imbarchi, mmm, nessuno. Nel frattempo si avvicinano a più riprese alcune persone “Taxi?”. “No, gracias“, è l’unica cosa che so rispondere. Provo a chiamare l’Italia, ma l’Italia non s’è ancora desta. Aspetto ancora un attimo, chiedo ad un taxi driver se conosce il quartiere di Munaypata, “Claro que si“, allora decido – nell’evidente assenza di Maometto – per la montagna che va da lui a suonargli il campanello all’una e mezza di notte.

Il taxista intanto parte, infilandosi in vie buie e crocicchi con rotatorie fatte di spazzatura scomposta e di cani che ci ravanano e si mette a chiacchierare con me che non capisco quasi un’acca. Gli dico che “entiendo un poco y no ablo bien“, si chiama Miguel. Per strada ci sono donne anche sole che camminano, mi preparo la domandina in testa e gli chiedo il perché, mi risponde che tornano a casa dopo il lavoro. Arriviamo a Munaypata, cerchiamo invano la casa parrocchiale, a più riprese, giriamo, giriamo, giriamo, neanche fosse un gran premio, chiediamo alla polizia, ad altre donne che passano. Sono le due e finalmente ci arriviamo, un campanello non c’è, iniziamo a ululare, a scuotere il cancello, facciamo arrabbiare i cani, così magari i padroni si svegliano… sempre e comunque invano; diventano le due e mezza, chiediamo al vicino ospedale Juan 23 se hanno il numero dei preti lì vicini, ovvio che non l’hanno. Avevo fatto precise raccomandazioni al Centro missionario (“sì, vai tranquillo”), aspettavo un sms con il numero di telefono (“mi sono dimenticata”), ma – che ingenuo a non pensarci prima – se una cosa deve andare storta, mica ti chiede il permesso o ci va a spizzichi, ci va in toto e punto.

Così ripieghiamo su un alloggio economico per la notte e l’indomani vedremo. Attraversando la città di notte, viva, affascinante e inquieta, mi porta in un posto carino, 130 boliviani (moneta locale) per notte, senza alcuna storia entro ringraziando Miguel della cortesia e mi fiondo a letto in questo hotel due stelle, carino, meditando che se il buongiorno si vede dal mattino questa sarà proprio una gran bella avventura.

Dietro alle cose apparentemente storte c’è spesso un fascino incredibile. Basta solo metter da parte la paura e abbandonarcisi.