L’amore

Con questa parola si spiega tutto, si perdona tutto, si accetta tutto, perché non si cerca mai di conoscerne il contenuto. E’ la parola d’ordine che apre i cuori, i sessi, le sacrestie e le comunità umane. Copre di un velo falsamente disinteressato, persino trascendente, la ricerca della dominanza e il cosiddetto istinto di proprietà. E’ una parola che mente continuamente e questa menzogna viene accettata con le lacrime agli occhi, senza discutere, da tutti gli uomini. Procura una veste onorata all’assassino, alla madre di famiglia, al prete, ai militari, ai carnefici, agli inquisitori, agli uomini politici. Chi osasse spogliarla, denudarla fino in fondo dei pregiudizi che la ricoprono, non sarebbe ritenuto lucido ma cinico. Dà tranquillità di coscienza senza nè grossi sforzi nè grossi rischi, a tutto l’inconscio biologico. Decolpevolizza: infatti […] occorre che le motivazioni profonde di tutti gli atti umani vengano ignorate. Conoscerle, metterle a nudo, porterebbe alla rivolta dei dominati, alla contestazione delle strutture gerarchiche. La parola amore è lì pronta per motivare la sottomissione, per trasfigurare il principio di piacere, l’appagamento della dominanza.

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Qual è il posto dell’amore in questo schema? E’ senz’altro qualcosa di oggettivamente esatto definire l’amore come la dipendenza del sistema nervoso nei confronti dell’azione gratificante, realizzata grazie alla presenza di un altro essere nel nostro spazio. Viceversa l’odio non nasce forse quando l’altro non ci gratifica più, o quando qualcuno si impadronisce dell’oggetto dei nostri desideri, o si insinua nel nostro spazio gratificante e si gratifica con l’essere o l’oggetto della nostra precedente gratificazione?

Ci chiediamo però se queste osservazioni […] abbiano un qualche valore di fronte alla gioia ineffabile, realtà vissuta, dell’innamorato. Nel descriverla come abbiamo appena fatto non viene ignorata la parte umana dell’amore, la dimensione immaginaria, creatrice, culturale? Probabilmente sì, per l’amore felice. Ma qualcun altro l’ha detto, non esiste l’amore felice. Non c’è uno spazio abbastanza chiuso, che racchiuda per tutta una vita due esseri in loro stessi.

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E il contatto, il calore umano non conta? […] Nel contatto con l’altro si è sempre in due. E spesso l’altro ci cerca non per trovarci, ma per trovare se stesso, come noi cerchiamo noi stessi nell’altro. Non possiamo uscire dal solco che la nicchia ambientale ha inciso nella cera vergine della nostra memoria da quando è nata al mondo dell’inconscio.

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La realtà che propongo non è la realtà della nicchia ambientale immediata, che si tocca, che si sente, che si vede. Quella realtà, anche se ammettiamo la differenza, la non-appropriazione, l’autonomia parziale dell’altro (e tale atteggiamento d’altronde sarà considerato una forma di indifferenza), non è ancora abbastanza informata sul suo insieme o piuttosto è troppo deformata dalla cultura per accettare che a nostra volta possiamo godere degli stessi vantaggi. Amare l’altro dovrebbe significare ammettere che possa pensare, sentire, agire in modo non conforme ai nostri desideri, alla nostra gratificazione, accettare che viva secondo il suo sistema di gratificazione personale e non secondo il nostro. Ma l’apprendimento culturale nel corso dei millenni ha legato il sentimento amoroso a quello di possesso, di appropriazione, di dipendenza, rispetto all’immagine che ci facciamo dell’altro, a tal punto che colui che si comportasse così nei confronti dell’altro, sarebbe giudicato solo indifferente.

Dissacranti letture da aereo, tratte da: H. Laborit, “Elogio della fuga”, Mondadori, pp. 17-32

(ah, dimenticavo, evidentemente ogni riferimento a fatti, situazioni, relazioni, persone, fidanzati/e presenti passati/e e futuri/e realmente esistiti è puramente casuale e indipendente sia dalla volontà dell’autore che da quella di chi lo cita, per cui se qualcuno dovesse sentirsi per caso chiamato in causa se la prenda con… la causa. O in alternativa con se stesso/a).