Così ho capito che ciò che chiamiamo “amore” nasceva dal rinforzo dell’azione gratificante autorizzata da un altro essere situato nel nostro spazio operativo e che il male d’amore nasce dal fatto che quella persona rifiutava di essere il nostro oggetto gratificante o diventava quello di un altro, sottraendosi così, più o meno completamente alla nostra azione. Il rifiuto o la spartizione feriva l’immagine ideale che avevamo di noi stessi, feriva il narcisismo e dava avvio alla depressione, all’aggressività o al denigramento della persona amata.
Ho capito anche ciò che tanti altri avevano scoperto prima di me, che si nasce, si vive, si muore soli al mondo, rinchiusi nella propria struttura biologica la cui unica ragione d’essere è conservarsi. […]. Ho capito infine che l’origine profonda dell’angoscia esistenziale, occultata dalla vita quotidiana e dalle relazioni interindividuali in una società produttiva, era la solitudine della nostra struttura biologica che rinchiude in sè l’insieme, quasi sempre anonimo, delle esperienze che abbiamo tratto dagli altri. Angoscia di non capire ciò che siamo e ciò che essi sono, prigionieri incatenati allo stesso mondo di incoerenza e di morte. Ho capito che quello che chiamiamo amore poteva essere solo il grido prolungato del prigioniero che va al supplizio, conscio dell’assurdità della sua innocenza; quel grido disperato che invoca l’altro in aiuto e al quale nessuna eco risponde mai. Il grido del Cristo sulla croce: “Eloï, Eloï, lema sabachtani, Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?” A rispondergli c’era solo il Dio dell’élite e del sinedrio. Il Dio dei più forti. Forse è per questo che coloro che non hanno occasione di lanciare questo grido sono da invidiare: i ricchi, i millantatori del merito, gli eroi dello sforzo ricompensato, i “fate come me”, gli “io penso che”, gli “è evidente che”, i sublimatori, i certi, i giusti. Essi non invocano mai aiuto, si contentano di cercare appoggi per la promozione sociale. Perché, fin dall’infanzia, è stato loro ripetuto che solo quest’ultima dà la felicità. Non hanno il tempo di amare, occupati come sono a salire i gradini della scala gerarchica. am consigliano fermamente agli altri l’uso di questo “valore supremo” di cui si dicono impregnati. Per gli altri invece l’amore comincia col vagito del neonato quando, abbandonata bruscamente la sacca materna delle acque, sente improvvisamente sulla nuca il vento gelido del mondo e comincia a respirare da solo, completamente solo, per se stesso, fino alla morte.
H. Laborit, “Elogio della fuga”, Mondadori, pp. 36-37
“Ognuno sta solo sul cuor della terra”…
E una volta che si è capito questo bisogna saltare: sotto c’è l’acqua, ma non riusciamo ad immaginarlo (avete presenti i bimbi impauriti in piscina?)
E nell’acqua ci sono tutti quelli che hanno deciso che non c’era rimedio se non questo: non siamo più soli.
Dove finisce la paura comincia la libertà: da lì si puo tentare con l’amore…
Ma sono parole: se potessi mangiare un’idea…
L’appetito non mi manca e, forse, prima o poi ci riuscirò.