Wow, giornate di nuovo intense, anche dopo aver accompagnato all’uscita i nostri tribulinesi che quasi si scusavano per il disturbo (ma quale disturbo??? erano mesi che non ridevamo così): «Eh, non lo fate apparire, ma probabilmente ne avete piena l’anima di noi, sarete contenti quando ce ne andremo, tornerà la pace a Viloco».
Appunto, chi la vuole la pace???
E per fortuna dopo qualche giorno di morgue a Viloco, siamo tornati alla civiltà della capitale per goderci una nuova piccola compagnia in visita.
Ma prima di loro siamo andati noi a far visita a Lupe Cajías de la Vega (bel secondo cognome, vero?), l’amica giornalista e scrittrice del don nella sua bella casa del Montículo (occhio all’accento), una zona verde e sopraelevata di La Paz con un bel parco dove giorno e notte i soliti rasta si danno il cambio a suonare strani strumenti musicali. In questo meraviglioso contesto della borghesia paceña, suoniamo il campanello e viene ad aprirci con un sorriso la porta una splendida fanciulla, capelli neri neri lunghi ed ondulati, è la figlia della scrittrice. Poco dopo arriva anche il pater familias e una seconda figlia, altrettanto carina (con la quale abbiamo l’obbligo di parlare italiano perché il suo, appreso a Reggio Emilia, è un po’ arrugginito, dice). Il salotto-sala da pranzo è scuro, illuminato solo da un lucernario sul soffitto che in questa giornata di sole-nuvole-pioggia-grandine-sole sembra una lampada alogena con un variatore di luminosità che non fa il classico ronzio. Alle pareti una serie di strane opere d’arte tra lo scultoreo e il pittorico dal colore caldo, che danno all’ambiente l’aria di un museo domestico. Sofia, la cuoca, porta in tavola le pietanze e così il nostro salame nostrano bergamasco, già ben tagliato con l’affettatrice, ben disposto sul piatto, ben coperto con una pellicola e ben cotto dal sole mentre se ne stava appoggiato sul cruscotto dell’auto, smette di sfigurare. Il pranzo è cordiale, il don e i commensali si danno del “tu” come si conoscessero da una vita (e probabilmente è anche vero, dato che i contenuti della conversazione tradiscono aggiornamenti reciproci abbastanza recenti). Anche la laurea in teologia fa il suo bel figurone in quell’ambiente dove in casa leggono e commentano insieme la bibbia, dove lei, carismatica, mostra un vivace interesse alle vite dei santi, alle figure degli asceti, dove le figlie portano le loro esperienze di peregrinazioni europee e i loro arricchimenti non solo spirituali. Il clima è talmente sereno e culturalmente stuzzicante che il tempo vola via è già ora di andarcene… Signùr. «Hai visto tu che dici che in queste zone non ci sono belle ragazze?», mi aveva detto il don due giorni prima quando è arrivata a casa una giovane vedova con bimbetta al seguito e un’altra nel pancione. Le stesse parole le ho ribadite a lui non appena la porta di casa-Lupe s’è chiusa.
E via, il giorno dopo arrivano Giovanna e Piero, nipote del don e marito. Non c’è da perdere tempo, andiamo a fare un giro da Giavarini per fargli un saluto, come per incanto lui ci porta in carcere a visitare Agostino, bresciano colto in flagrante con una valigia di “sogni” da trasportare in Italia e ci propone la domenica a Viacha nella struttura con i ragazzi 16-21, ma ci frulla in testa che se la nostra agenzia di fiducia è aperta, magari passiamo a vedere se ci può accompagnare giù in bicicletta per la death road. Genaro dice di sì, bene, cogliamo l’occasione: domenica mattina alle 7 siamo di fronte all’agenzia e inizia la nostra avventura sotto i peggiori auspici: ha piovuto tutto il giorno prima e tutta la notte, le previsioni sono pessime. Invece arriviamo con il minibus alla cumbre a 4700 metri, ci danno tutta l’attrezzatura, bici, caschetto, gomitiere, ginocchiere, tuta da motociclista, insomma “vietato cadere” ci dice la nostra guida. Con noi ci sono Martin e Alexandra, una coppia di canadesi perfettamente bilingue con i quali piano piano iniziamo a parlare e a capirci con il solito inglese-castigliano. Si parte, mentre dalle nuvole sbuca un sole pazzesco, foto di rito (che arriveranno presto anche qui), prima parte di asfalto piano piano per prendere confidenza con la bici e poi sempre più veloci, poi sterrato, anche qui di nuovo piano per prendere confidenza e poi quello parte invitandoci a stargli dietro se ce la sentiamo: io e Piero ci lanciamo a bomba in questa strada abbastanza bella, ma con precipizi impressionanti (non a caso chiamata la strada della morte). Ad un certo punto mi piglia un sasso in pieno nella ruota posteriore, freno, controllo che il pneumatico sia ancora gonfio, intanto cambio l’acqua al pipistrello perché tutti questi sobbalzi mi fanno sentire che la vescica è piena…. la gomma sta bene, riparto, ma non faccio in tempo a fare 20 metri che il rumore inequivocabile del cerchio sui sassi mi fa fermare di nuovo. Sul ciglio della strada aspetto pazientemente il minibus che ha una bici di scorta, passa Martin, passa Alexandra e finalmente il mezzo motorizzato. “Ho forato” gli dico, a tempo di record mi cambiano la camera d’aria.
– “Se sapevo che mi cambiavate la camera d’aria invece che darmi la bicicletta di scorta, già vi facevo trovare tutto smontato, no?”
– “Va bè, fa niente, vorrà dire che ci pagherai una birra all’arrivo”, mi risponde il baldanzoso Ricky.
Ed eccoci all’arrivo: appena parcheggiate le bici sotto la tettoia scende una di quelle tempiste tropicali da non riuscire a vedere al di là del muro di acqua… ma se fosse scesa anche solo l’ultimo paio di chilometri del nostro tragitto ci saremmo divertiti di più. Óter, intanto siamo sotto la tettoia, asciutti e cambiati, in maglietta e pantaloncini a berci la nostra birretta tattica e tutto passa quasi inosservato… 52 Km di discesa, 3500 metri di dislivello con alcune curve chiuse con strapiombo prese un po’ allegre, l’adrenalina non è mancata, la prudenza neanche. Bella esperienza che si conclude con due tuffi in un’improbabile piscina, una doccia rigenerante e un pranzo a buffet. Micidiale il ritorno, 3 ore di minibus, quando sembrava che potesse cavarsela anche in meno… andata così. Tornati stanchi e contenti. In attesa di affrontare le montagne.
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