…dopo che le francesi e le loro usanze rallegravano la serata nella serata.
Domenica sera. Monterosso (non “al mare”, purtroppo, ma comunque un bel posto con un gran coadiutore parrocchiale, beh, quello che è da dire è da dire). Invito a due, allargato a una dozzina, diventa un informale e casuale (premeditatissimo) saluto-Campagnola.
La conta ufficiale fa 7, dopo i bidoni di chi non legge spesso quella casella email, di chi ha la partita di pallavolo dell’amico allenatore, di chi ha una riunione alle 21, di chi esce con gli amici della tipa, di chi ha la riunione con i genitori dei suoi ragazzi, ma alla fine eravamo davvero in una dozzina dopo l’aggiunta all’ultimo degli amici della “mitica band”.
La serata parte a stuzzichini e finisce a Jägermeister. In mezzo una pizza con tanta, tanta birra, e un dolcetto con tanto spumantino, ohé, gli amici della mitica band tazzano, mica scherzano, tutti, tranne Spie che ha fatto il più assurdo fioretto di quaresima, ma tanto di cappello alla tenacia che lo ha fatto restare sobrio comunque nonostante tutte le pressioni e le motivazioni filosofico-teologiche confezionate ad hoc per sostenere la tesi dell’interruzione dell’astinenza. Che ragazzo d’oro, beato chi se lo piglia (ma non ditelo a sua madre perché già non lo vede tutto…).
I discorsi vanno dal fùbal a facebook, da com’è Monterosso rispetto a Campagnola al vicino di casa che fa agguati notturni, peraltro rancorosi (che brutta bestia il rancore, tesoro, quasi peggio della depressione). Ad un certo punto la serata crea due sotto-serate, la mitica band esce a prendere una boccata di ossigeno con i due vecchi del gruppo, mentre quelli delle alte scuole si fermano per proseguire una chiacchierata erudita (o più probabilmente per fare del gossip) 😉
All’esterno gli ultimi aggiornamenti “basici” tra le due generazioni e poco dopo parte lo show: le trasferte di lavoro con i corollari più esilaranti e le francesi umide tengono banco per quasi un’ora e, nonostante le sottili T-shirt avessero già da tempo iniziato ad essere poca roba, sono le ininterrotte sganasciate a far calore. Al rientro pare chiaro che le due sotto-serate abbiano assunto pieghe completamente diverse, anche se basta poco per allargare il contagio, perché evidentemente the show must go on, anche dopo la pubblicità.
Si fa tardi, l’indomani è giorno lavorativo e si inizia a salutare e ad andare. Sono i vecchi che restano. E il clima stranisce, soprattutto perché lo showman diventa tutt’a un tratto galileiano, tutto concentrato “sopra i massimi sistemi del mondo”, sul senso della vita e sui pesci da pigliare nel suo futuro: “che devo fare della mia vita”, “ad una certa età è ora di tirarsi assieme”, “ma com’è che le donne son così sempre… troppo donne”, “era meglio fare il prete, ma se faccio il prete la Chiesa è la volta buona che finisce”. Gli altri due vecchi ascoltano con interesse, ma un po’ spaesati, come orientati a fornire attenzione più che ricette, anche perché le ricette di vita, si sa, sono un po’ come il pesce e come gli ospiti.
Si fa veramente tardi e il padrone di casa sbadiglia, ci si saluta con un abbraccio, fraterno per davvero. I due vecchi escono e cercano di salutarsi. L’impresa appare ardua: sulla classica stretta di mano inizia un classico discorso di saluto e di augurio semiserio (classiche raccomandazioni annesse) che repentinamente evolve “ma che caxxo sto dicendo??”. Si fa di nuovo serio e di nuovo degenera e così prosegue per dei minuti senza che però le dita facciano alcun cenno di allentarsi. Ci sono alcune strette di mano che prolungate creano un disagio sempre crescente. Questa no, creava intimità, esprimeva la volontà di stare in contatto, il desiderio sincero e reciproco di non perdersi, ma anche la voglia di progettare qualcosa assieme per le future missioni (a proseguimento delle passate) e forse quella voglia di stare uniti nell’affrontare quel senso di inadeguatezza che il ritorno alla vita occidentale ti mette dentro, inevitabilmente.
L’auto sfreccia da sola verso casa, perché la testa è un po’ tra le nuvole e un po’ nei massimi sistemi, una lacrima fa capolino. Ma quanto è bello di avere degli amici così, che forse non ci si merita neanche. Degli amici che condividono valori, propositi, ansie, speranze. Degli amici che si perdono con te, come te e che più di te cercano di ritrovarsi, ancora convinti di poterci riuscire, anche quando inizia ad affacciarsi il sospetto che il senso della propria vita stia proprio lì, in quello che al mondo può sembrare un infinito caos esistenziale, ma che è invece un luogo o un tempo o un ente senza spazio né tempo dove forse, e dico forse, dover solo ogni tanto cambiare aria, dare una spolveratina, una ramazzata.
Carissimo amico, alla fine non importa chi sei, né di chi sei figlio, né a quale mondo appartieni, né chi devi essere, né dove devi (o dovresti) andare, su quale strada sei, o quale devi prendere. Importa che ami, non quanto, né come, anche perché l’amore o è tutto oppure non è amore e già ti dice il come.
Carissimo amico, non si è mai sentito di esistenze pacifiche, no, casomai di esistenze adeguate, assestate, stabilizzate. Ma mica tutte sono così politically correct. Bisogna solo farsene una ragione e smetterla coi tentativi di renderle come quelle altre pensando che siano queste quelle autentiche. Dopo tutto per un cristiano il modello dell’esistenza, il modello di uomo perfetto e completamente realizzato, è quello della persona dall’esistenza meno lineare e più politicamente scorretta (incompresa e fraintesa) della storia dell’umanità. O no?
Qualcuno in passato irrideva: “Sì, sì, bravo, inizia ad essere Gesù Cristo e poi ne riparliamo, eh”. Probabilmente questo tale nella sua vita passata era là ad urlare: “Sì sì bravo, inizia ad essere il Figlio di Dio e scendi dalla croce, ché poi ti crediamo, eh”.
Carissimo amico, non a tutti è dato di capire.
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